Howard Phillips Lovecraft: creatore di miti. La nascita di un fantastico e straniante universo narrativo (pubblicato su Costruire Storie)

 Howard Phillips Lovecraft: creatore di miti. La nascita di un fantastico e straniante universo narrativo.


Nel luglio del 1917 Howard Phillips Lovecraft scrive il suo secondo racconto, “Dagon”, destinato a decretarne, negli anni successivi alla morte, la fortuna e il successo.
Pubblicato una prima volta sulla rivista amatoriale “The Vagrant” (1919) e successivamente sulla nota rivista del fantastico, “Weird Tales” (1923), il racconto segna l’origine del “Ciclo di Chtulu”, ciclo di racconti che HPL ambienta in un mondo simile al nostro che cela, tuttavia, dietro il velo del quotidiano, terribili orrori, incarnati dalle dimenticate divinità “esterne”, provenienti dai confini del Cosmo. In Dagon sono presenti, in embrione, tutti quei temi che, sviluppati gradualmente dal Nostro, andranno a costituire l’intelaiatura della sua originale e orrorifica mitologia, che dagli anni Quaranta ad oggi è stata fonte di ispirazione per numerosi artisti, appassionati, scrittori, lettori, registi, musicisti.

Nato a Providence, Rhode Island, nel 1890, Lovecraft perse il padre in giovane età, trascorrendo l’infanzia e l’adolescenza nella villa dei nonni materni: qui avviene la sua prima formazione, tra la vasta biblioteca, dove entra in contatto con preziosi volumi, dai classici ai romanzi ottocenteschi, suoi compagni di vita, che costituiranno le fonti prime del suo universo immaginario (il nonno materno lo inizierà alla passione e lettura dei romanzi gotici, delle fiabe dei fratelli Grimm e dei racconti de Le Mille e una Notte), e le vie, le tradizioni, le atmosfere della neogotica e georgiana città della Nuova Inghilterra, alla quale legherà il suo destino, la sua vita, i suoi racconti (Dunwich, Arkham, Innsmouth, altro non sono, ad esempio, che alcune delle tetre e inquietanti città fantastiche, teatro di avvenimenti soprannaturali, che il nostro sostituisce a reali città del New England). Altre fonti di ispirazione per la sua nuova “fantascienza orrorifica” saranno le atmosfere oniriche, gli ambienti gotici di Poe e Bierce, i neomiti di Lord Dunsany e i racconti soprannaturali di Machen. La salute cagionevole, le crisi nevrotiche, le ristrettezze economiche, caratterizzeranno tutta la vita dello scrittore che, anche a causa di ciò, non porterà a compimento nè gli studi liceali nè quelli universitari: ciò non gli impedirà, tuttavia, di emergere quale scrittore prolifico, spesso anche come coautore o revisionista di racconti del fantastico per riviste come “Weird Tales”; noto, tuttavia, negli anni della sua attività, soprattutto presso gli addetti ai lavori o i colleghi, fu, di contro, scarsamente valutato dalla critica del suo tempo.

Il protagonista del racconto “Dagon” è un Io narrante, senza nome, nel quale non è difficile individuare l’alter ego dell’autore stesso, descritto mentre, in preda ai deliri e all’angoscia, sta per porre fine a una vita insopportabile (“senza la morfina che rende sopportabile la mia esistenza”); prima di compiere l’estremo gesto decide però di descrivere un’avventura sconcertante verificatasi anni prima, sotto forma di diario/testamento all’umanità: l’atipico eroe lovecraftiano, sfuggito ad una nave tedesca sulle soglie del Primo Conflitto Mondiale, si ritrova in un’area sperduta del Pacifico. Dopo una notte di sogni inquieti, strani e agitati, giunge in una sorta di isola melmosa e putrescente, dove, facendosi strada tra la fanghiglia e le carcasse di pesci e sconosciute creature marine in decomposizione, giunge ad una profondissima gola accessibile attraverso costoni e sporgenze: è qui che scoprirà terribili testimonianze di una civiltà antica milioni di anni, dai tratti umanoidi e anfibi, impressi su di un obelisco ciclopico, dalle forme irregolari ed enormi, illuminato dal chiarore di una Luna sinistra.
Proprio mentre il protagonista è in preda ai dubbi e ad inquietanti interrogativi, sull’esistenza di sconosciute, temibili e antichissime civiltà, dall’acqua nera affiora, in un unico guizzo, un’immensa, temibile e ripugnante creatura, che con un movimento inumano abbraccia l’obelisco emettendo vocalizzazioni sconosciute - si scoprirà più avanti essere Dagon, divinità mesopotamica adorata dai Filistei e rielaborata dalla fantasia di HPL.
L’attenzione del racconto si sposta nuovamente sul presente, nell’abitazione dello sfortunato “eroe”, preda di tormenti e deliri di persecuzione, che sente (o crede di sentire), la mano oscura di Dagon alla porta. Il racconto si conclude con le ultime parole scritte sul diario, che lasciano presupporre l’esito dell’estremo gesto. “Dagon” è la vera introduzione ad altri capolavori del Solitario, come “Il richiamo di Cthulhu” (1926), “Il colore venuto dallo spazio” (1927), “L’orrore di Dunwich” (1929), “Le montagne della follia” (1936).

L’annichilimento dell’uomo di fronte a forze talmente grandi e terribili, da essere impossibili da comprendere o definire con la sola razionalità e i propri mezzi, per quanto avanzati; la presenza di entità oscure, terribili, totalmente indifferenti nei confronti del destino degli uomini, né benevole né maligne, provenienti da angoli del Cosmo sconosciuti, non “abitatori delle Stelle”, equiparabili a presunti marziani, ma “le Divinità stesse degli abitatori delle Stelle”, per i quali la vita umana esiste solo per un capriccio (si pensi al “blasfemo” Azathoth, a Yog-Sothoth, la “dea madre” Shub-Niggurath, il folle Nyarlathotep, i Grandi Antichi come “il morto abitatore degli abissi” Cthulhu); la dimensione onirica (sia essa costituita da sogni o incubi) come “porta” di comprensione e accesso ad altre realtà (che denuncia, inoltre, la presenza di un certo spiritualismo nell’opera di HPL, nonostante il suo dichiarato ateismo); la presenza di un male antico, celato alla vista, che l’uomo non può sconfiggere ma limitarsi a combattere, quasi sempre con esiti negativi; sono solo alcuni dei temi che compaiono nel Dagon e che caratterizzeranno tutta la produzione letteraria del Solitario di Providence.
La lotta contro forze più alte, terribili, o il tentativo di colti e classici personaggi e “antieroi” lovecraftiani di controllare o dominare le stesse, ha come conseguenza la morte o la pazzia, salvo casi eccezionali: paradigmatico in tal senso il romanzo “Il caso di Charles Dexter Ward” (1927), nel quale il protagonista, altra replica su carta dell’autore, studioso di storia e di antiquariato, diviene vittima di arcani e segreti riti magici, compiuti per “troppo amore del passato” (simbolo del sacrificio che l’uomo fa di se stesso per la propria affermazione intellettuale), mentre il dottor Willett sarà l’unico in grado di risolvere gli intricati misteri e ad emergere senza impazzire (seppur scosso per il resto della sua vita) dal mondo stregato che si cela dietro il volto nobiliare (ma decadente) di Providence e del reincarnato stregone seicentesco Curwen, “soltanto perché in possesso di una grande immaginazione”.
Sono questi alcuni dei profondi e fondanti temi ciclici dell’universo mitico di Lovecraft, annunciati con “Dagon”, che esprimono una, neanche troppo velata, critica alla società occidentale del XX secolo, le paure e le ansie collettive dell’uomo moderno, con la demitizzazione dell’antropocentrismo e i limiti di un progresso scientifico, tecnologico, economico, tutt’altro che illimitato, egualitario, diffuso e fautore di un benessere continuo (nella visione Lovecraftiana, la sola razionalità, del resto, non consente all’uomo di vedere, percepire, le diverse sfaccettature della realtà), e del resto, sono lo specchio di un rifugio, una “fuga” dell’autore, timido e introverso, da una società pratica, eccessivamente consumistica e razionalistica, che non lo comprende e dalla quale si sente e sa di essere un emarginato: una società che spesso esclude menti eccelse e preclude possibilità di emergere a giovani brillanti.
E proprio all’immaginazione creativa, Lovecraft attribuisce un altissimo valore: nel suo saggio “In Defence of Dagon”, che è insieme sia una difesa del racconto dalle critiche dei detrattori che un manifesto della legittimità e piena validità del suo universo narrativo, Lovecraft dichiara: «Solo la narrativa fantastica soddisfa le richieste dell’immaginazione», contrapponendola al romanzo romantico e realista, «Ma, poiché l’immaginazione è molto meno diffusa dell’emotività o della ragione analitica, ne consegue che questo terzo genere letterario deve essere relativamente poco diffuso e decisamente poco ristretto nel suo interesse».

Nicolò Maggio

BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO

LOVECRAFT, HOWARD PHILLIPS, “I mostri all’angolo della strada”, trad. it., a cura di Carlo Fruttero e Franco Lucentini, Il Saggiatore, Milano, 2011 (prima storica raccolta italiana del Solitario di Providence); Id., “Tutti i racconti”, trad. it., Mondadori, Milano, 2015.

Si rimanda, inoltre, ad un contributo dell’autore del testoo:
MAGGIO, NICOLO’, “H. P. Lovecraft e J. R. R. Tolkien: creatori di mondi. Differenze, confronti, possibili parallelismi, I parte”, in “Gli Annali della Terra di Mezzo”, 19 aprile 2021, consultabile al link: https://annalidellaterradimezzo.blogspot.com/.../h-p...

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Dagon, illustrazione di Mario Zuccarello.

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